Il mio treno giunge puntuale, arriverò a casa di Manrico per le 22.30.
È novembre e la pioggia è battente.
L’indomani saranno trent’anni dalla caduta del muro di Berlino e il giorno successivo ancora si ricorderà la tragica Kristallnacht. Le luci di Genova evocano una moltitudine di storie, mediatrici tra l’essere umano e la terra che abitiamo, margine di un mare inatteso, magma del cielo dove l’onda brucia la luce e il perpetuo canto di chazan fende il deserto. Tra i passi di persone che attraversano la Stazione Principe come ombre, emerge come scoglio il numero, battigia del mistero, nel palpito invisibile dei cuori pulsanti che incrocio, poiché ogni sconosciuto sguardo testimonia un’emozione autentica che ne può cogliere un’altra nostra, perché inaspettata.
Imbocco la storica Via Balbi, dove ai miei ricordi di bambina si sovrappongono quelli di una preziosa passeggiata con un insostituibile compagno di vita – ogni scintilla di felicità si può fissare nella nostra memoria come costellazione a cui rivolgere il nostro sguardo nei momenti più tenebrosi.
Mi infilo in Salita Santa Brigida e quando suono il campanello “Murzi Pelish” mi sento arrivata a casa.
Ad attendermi all’ingresso ci sono Manrico e sua figlia Giuliana, tra le sculture visionarie di Ivy, spesso suscitate dalle silenziose narrazioni della Torà. Mi accompagnano in cucina per offrirmi del the caldo e lo “sfratto”, un dolce tipico di Pitigliano, in Toscana, un paese medioevale costruito sul tufo e conosciuto dagli ebrei di Livorno come la Piccola Gerusalemme. Giuliana mi racconta che il dolce – di forma allungata simile a un bastone e ripieno di miele, scorse di arancia, noci e noce moscate – fu creato dagli ebrei nel XVIII secolo per ricordare l’evento, un secolo prima, dei messi che intimavano i loro avi a lasciare le case per trasferirsi nel ghetto, battendo alle porte con un bastone, per attuare l’editto emanato dal Granduca di Toscana Cosimo II de’Medici.
Manrico ha appena terminato di scrivere gli appunti della conferenza sull’Ultima Cena di Leonardo da Vinci che terrà in dicembre alla Biblioteca Universitaria della città, dal titolo “Le 12 creature dello zodiaco a tavola con il sole” e mi racconta dei suoi studi più recenti sul tema.
Lo sguardo e la voce di Manrico hanno quel colore costante che dipinge la gioia di accogliere il prossimo, l’affetto più caro come l’ospite ignoto.
È ormai mezzanotte e andiamo a dormire.
Come ogni mattina, Manrico si sveglia alle cinque per dedicarsi alla scrittura. Dopo una colazione insieme, ci sediamo nel suo studio dove circondato dalle opere di Ivy, dai libri e dalle innumerevoli carte in attesa di nuova lettura sulla scrivania, iniziamo un dialogo per un’intervista sul presente.
Esiste un numero che sia per te un filo conduttore nello scrivere, nell’ascoltare, nell’organizzare la parola? Oppure il numero si esprime con e in una libertà che abbraccia ogni sua forma?
Il numero non serve a calcolare. Il numero, poi, non serve niente e nessuno. Il numero vive, dentro di noi, e ha una sua vita indipendente. Noi non possiamo comandare il numero. Sarebbe mancanza di rispetto per lo spirito, che di numero è fatto.
Il numero regola, governa, domina, crea, costruisce, genera.
Nelle sue operazioni – anche le semplici operazioni di addizione, sottrazione e di moltiplicazione – tutto lui fa per conto suo.
Noi abbiamo il libero arbitrio che, a volte, è in conflitto con qualche cosa che è stato deciso dall’ignoto e noi non possiamo intervenire nell’ignoto. L’ignoto è, in pratica, il numero.
Penso anche che un giorno noi conosceremo il numero e l’operazione quale espressione del mistero – moltiplicazione, addizione sottrazione…qualsiasi operazione anche semplice o algebrica – e conosceremo il mistero esprimendolo con un’equazione o con un numero, perché tutto ha il numero dentro di sé: la pietra come la foglia, l’uomo come l’insetto, le stelle…sono tutte regolate dal Numero.
Il canto, in tutte le sue forme, dialoga con la tradizione e le storie che essi evocano, archetipi sonori. Esiste nella poesia una forma analoga del canto di tradizione?
Io penso che il canto sia stata la prima espressione dell’essere umano. È un meccanismo che non possiamo dominare. Scrivere poesia avviene di per sé, è una necessità, un’esigenza. Allora, dal fondo del mare interno che abbiamo dentro di noi – il piccolo mare che siamo dentro di noi – da questo piccolo mare galleggiano, vengono all’aperto i suoni del movimento dell’acqua di questo mare che è fatto di pensiero, perché la poesia trasmette pensiero, trasmette sentimento, a volte un’emozione. È una forma di rappresentazione della nostra realtà interiore. Allora c’è il mistero: questo piccolo mare è il mistero. Non lo abbiamo fatto noi stessi, ce lo troviamo dentro, perché è fatto di spirito e di materia unite assieme, che si aiutano nel poter vivere e nell’essere vive. E quindi è tutta una questione di energie trasmesse e alimentate dallo spirito che si muove dentro di noi, fuori di noi, se ne va a passeggio, viene, va…Noi non possiamo dominare o comandare o regolare il moto dello spirito, del mistero, della vita, del vivere, che poi è respirazione. Finché uno respira e finché uno parla è un uomo. Appena la respirazione viene a mancare, lo pneuma non c’è più, cosa siamo? Niente. I Greci intorno a Troia cosa prendevano? Le armi, che erano preziose, perché opere di artigianato, opere importanti, anche perché avevano un costo piuttosto elevato, lavoro di artigiani stupendi, erano costose. Si recuperavano le armi e il corpo, il corpo lo si legava a un cavallo e lo trascinavano per terra, non aveva più importanza, il corpo veniva bruciato e basta. Ma, finchè c’era il respiro, c’era la vita. E finchè c’era la vita c’era la parola.
Che cosa è la parola?
La parola viene da “parabola”, cioè sta intorno a para-bolo, intorno a ciò che viene tirato – “bolo”, tirare, scagliare. La parola è scagliare significati. È scagliare movimento, di mente soprattutto.
È poi, qui scrivendo, manovrare lo slancio.
Se il dialogo con il prossimo ha una funzione consapevole nella tua scrittura, in che modo le storie dei più “semplici” o dei più “complessi” contribuiscono a cogliere e raccogliere nella poesia il sentire che tu trasmetti e che ruolo hanno avuto le storie di chi hai incontrato, mettendo in luce i loro talenti?
Attraverso il vivere, il muoversi tra la gente, noi costruiamo noi stessi. In qualche modo si può dire che noi siamo le persone che abbiamo incontrato, che incontriamo, che incontreremo. Perché?
Anche leggendo un libro succede, anche vivendo esperienze spirituali o materiali, noi tiriamo fuori un pezzo di noi stessi.
Leggi un libro: che cosa ricorderai di questo libro? Ciò che hai trovato di te stesso.
Incontri una persona, che cosa ricorderai di questa persona? Quello che la persona aveva di te.
Non è una forma narcisistica o egoistica. Avviene così, misteriosamente.
Ti formi con l’esperienza, con il sale, con l’assaggiare, con il sentire. Ti formi con un contatto diretto con la realtà che ha una parte di te. E tu costruisci, vivendo, la tua persona, perché noi, quando nasciamo, siamo un seme che ha già tutto dentro, come una pianta. Per la nostra vita è “conoscere se stessi” come diceva Talete, il “conosci te stesso” usato molto da Socrate, poi, e ripreso da Platone con tutti gli arricchimenti che ha dato al parlare del maestro, poiché il maestro non scrive, parla. E torniamo al valore della parola, della parabola, di questo scagliare nell’aria la tua voce che dice.
E noi abbiamo valore in quanto siamo capaci di scagliare suoni e vibrazioni nell’aria.
Per questo noi dobbiamo essere responsabili delle parole che pronunciamo, delle parole che scriviamo, delle parole che trasmettiamo.
Il modo deve essere essenziale, efficace, saporito. Noi dobbiamo essere saporiti per trasmettere sapienza, per trasmettere il tatto delle cose, l’essere a contatto con una realtà che è degna di essere trasmessa.
La conoscenza e la sapienza di Ivy Pelish, artista dal sentire autentico e tua moglie, si sono intrecciati come in un mosaico, con la tua scrittura. Il dialogo è una necessità per l’essere umano che permette di riflettersi e riconoscersi nell’altro, per comprendere le nostre radici, invisibili. In che modo il dialogo con Ivy ha inciso nella tua visione poetica e nella sintesi che ogni tua poesia traccia rispetto a una prospettiva sempre nuova?
Prima di incontrare Ivy, che quando mi ha lasciato, purtroppo, mancavano tre mesi per avere la somma di settanta anni assieme, mi sentivo incompleto, imperfetto. Non ero persona. Non ero attore in pieno nel palcoscenico della vita.
Incontrato lei, certamente ci siamo uniti nel lavoro di intuizione e di apprendimento dando uno all’altra elementi, completando ambedue la nostra persona, formandoci, seppur rimanendo individui, liberi e indipendenti.
Il canto di prima dell’incontro, pur essendo buono, non aveva sicurezza di cammino, come quelle scarpe che entravano e non entravano a far parte del corpo per camminare…. c’era un tentennamento. C’era l’espressione di un’assenza di completezza. Con il nostro incontro, il canto e la forma dell’arte – la sua forma dell’arte che è arte visiva e la mia che è arte d’ascolto e di intuizione – si sono unite. Adesso si è spezzata per ragioni naturali di esistenza finita.
Il mio discorso è quello del visibile che non ha più ciò che è diventato invisibile. Però, l’invisibile si è reso più importante. La vita si è spiritualizzata proprio per la scomparsa della metà mia. Quello di cui parlo ora è la visione del mondo, del dopo vita e la visione, anche, chi lo sa, di speranza, di re-incontro in altra forma, con altri nomi e altri cognomi.
C’è una mia poesia, che si intitola “Ritorni”.
Usa un nome qualsiasi per chiamarmi.
La mia prossima apparizione
Su questo palcoscenico
Sarà ancora di uno spirito immortale
Che si è incarnato in un corpo mortale.
La parola appioppata o il cognome
Saranno solo segni distintivi
In mezzo alle tante apparizioni.
Questo nostro andare e venire
È solo infilare una porta
Dalla quale si esce cresciuti di poco
O di molto sminuiti.
La porta è girevole come quella
Delle cucine laboriose dove
Transita il cameriere: sapori e odori,
toccamenti e suoni,
lente visioni o rapidi lampeggi.
Questo è il cammino delle nostre barche
Alle quali restiamo attaccati,
spiriti bisognosi di un veicolo morente
che ci porti nei tratti terrestri della voglia,
mentre il traffico non consuma la soglia.
(Genova, 6 maggio 2011)
Hai tradotto tante opere. La traduzione e la disciplina del non tradire hanno accompagnato il tuo cammino. Tra le traduzioni più importanti “I Doni di Alcippe” di Marguerite Yourcenar, “La Guerra dei Trent’anni” di Georges Pagès e “El Cid” di Monique Baile dal francese, “Malinche, Doña Marina” di Haniel Long e “Manto Nero” di Brian Moore dall’inglese, “Il Rione dei Ragazzi” di Nagib Mahfuz dall’arabo – il capolavoro proibito che ha procurato a te una condanna a morte da parte degli ulema dell’Università islamica del Cairo e per il Nobel egiziano una fatwa – “La Leggenda dei Liberi Muratori” di Francis Peter Lobkowitz dal tedesco.
Quale importanza e ruolo la traduzione ha esercitato come compagna di viaggio della poesia?
Tradurre è far attraversare una certa distanza per arrivare a un’altra persona, perché lo stesso significato passi con altra forma senza perdere sostanza, forza. Allora, se io traduco una poesia, prima di tutto la devo assumere come mia. Poi, la devo riscrivere come l’avrebbe scritta l’autore, da non tradire essendo italiano. La traduzione è un atto d’amore, un gesto d’amore. Uno s’innamora di una poesia e se la porta a letto! Si innamora di un romanzo e se lo porta a letto, come se fosse una donna di cui sei innamorato! C’è una forma importante di rispetto dell’altro. Uno s’innamora di un autore. Io, ad esempio, sono innamorato di Konstantin Kavafis. È’ come un atto sessuale, dove devono apparire rispetto, attaccamento. L’incontro con la poesia di Konstantin Kavafis, di William Butler Yeats, o del mio maestro Ungaretti, è importante perché impari qualcosa. Diventi qualcosa dell’autore che ami, come aumenti i valori della tua esistenza accompagnandoti con un’altra esistenza che ha valori. C’è uno scambio, dove ci vuole rispetto, onestà e lealtà. Bisogna avere coscienza di queste responsabilità. Bisogna essere chiari e leali. Nel tradurre ci sono questi rapporti da rispettare, come in un’unione…bisogna imparare a essere rispettosi.
Hai citato il maestro Ungaretti. La relazione con il maestro non finisce, è un dialogo che si perpetua anche nell’allontanamento e anche nel non essere in accordo con ogni ambito o scelta. Il maestro indica una via di discernimento che l’allievo o chi l’ascolta vive e abita già nella relazione con il maestro. Che cosa ti ha indicato il maestro nella via che hai percorso? C’è una direzione o una visione che lui ha segnato nella tua via?
Il mio contatto è stato un rapporto di otto anni con Ungaretti. Lui mi ha insegnato due cose importanti.
Mi ha insegnato la libertà. Essendo suo assistente ogni tanto dimenticavo o mi perdevo per strade mie…quando ritornavo mai mi dava una parola di rimprovero, mi chiamava “Gambastorta” ed esclamava “Ah, sei tornato, com’era?”, poiché comprendeva che mie ero allontanato per questioni di “gioco”, diciamo così!
E mi ha insegnato l’entrare nel significato delle parole, nel rispetto del loro significato. E soprattutto nel suono delle parole. Lui aveva la sillabazione come lezione appresa dal canto dei muezzin dai minareti di Alessandria d’Egitto. E la sua poesia ce lo dice, la si legge sillabando. Lui aveva appreso da ragazzo, era stato ad Alessandria d’Egitto fino all’età di ventiquattro anni. A nessun poeta egiziano era successo di apprendere la sillabazione dei canti dei muezzin, come a Ungaretti, che parlava francese e non conosceva l’arabo – conosceva le parolacce in arabo!
A lui piaceva ciò che scrivevo. A volte ci giocava, ci scherzava. Aveva un orizzonte libero.
Esiste un romanzo, “Il coraggio del pettirosso”, dove l’autore lo descrive come fascista all’inizio della storia e termina considerandolo fino alla fine fascista…ma, figurarsi se c’era del fascismo in Ungaretti: assolutamente no! Era libero, aperto. Era un maestro di libertà.
E un maestro di libertà non può essere fascista.
La tua origine ebraica ti ha accompagnato come radice identitaria e, o, come culla di una conoscenza, di una cultura con cui hai sempre dialogato?
Come radice, avendo un padre ebreo, sì in quanto legata alla mia esistenza. Mia nonna era di Livorno, Berti Livori. Nel mio paesetto non c’era una sinagoga e non c’era una pratica.
La cultura ebraica mi ha interessato in quanto insegnamento e apprendimento di tutti quegli elementi che riguardano la creatività. Nell’antico testamento ho sempre trovato ispirazione, lezione. Non dottrina, che a me non piace. Certe intuizioni che hanno avuto gli ebrei della creazione con la parola e della vibrazione con la parola, l’insegnamento della responsabilità nel pronunciare una parola, o certi valori etici che riguardano tutti e non individui particolari, sono state per me lezioni importanti. Ho sempre trovato in esso l’etica, non la morale, pur avendo un testo che non ha ritrosia nel riportare eventi o fatti che sono scandalosi! Caino e Abele, e la sua uccisione, o la moglie di Abramo data al faraone… sono eventi raccontati con innocenza e, dunque, sono una lezione di innocenza, ma anche di libertà.
La preziosa amicizia con Marguerite Yourcenar ha segnato delle memorie importanti nella tua vita. Quale tra queste sigilla il suo ricordo nel presente?
Frequentare e sostare con la Yourcenar, donna eccezionale che ha chiesto il mio linguaggio poetico per la sua poesia “I Doni di Alcippe”, pubblicata da Bompiani, un linguaggio forte e sereno per una confessione del suo amore per un’altra donna, e che mi ha trasmesso la capacità di comprendere e accettare ogni forma e modo: ha scritto sulla sua tomba: “Chiedo a colui che forse è di adeguare il cuore dell’Uomo alla dimensione di tutte le cose”.
Mi ha poi insegnato di non andare in troppe direzioni, come facevo, di essere essenziale e di andare in profondità senza paure, e di affrontare, anche nella scrittura, le difficoltà con leggerezza, avendo, secondo lei, le dovute capacità. Amava molto la mia poesia; avevamo in comune l’amore per la storia e per le sue torbide vicende, l’amore per la poesia di Kavafis e per i messaggi ancor oggi validi diretti agli uomini, e in particolare ai giovani.
Nel frattempo sono giunti gli ospiti, che Manrico accoglie con l’abbraccio di padre, maestro e amico.
Da “Le mosche di Omero” (Raffaelli Editore 2020) che raccoglie il viaggio attraverso la sua parola, citiamo i versi del libretto “Jeanne e Dedò”, un’opera pubblicata da Curci e dedicata ad Amedeo Modigliani e a Jeanne Hébuterne, di cui ho avuto il privilegio di comporre le musiche. A pochi giorni dal centenario della loro scomparsa, la poesia di Manrico Murzi interpreta il sogno di un grande amore, il sogno della meravigliosa moltitudine umana di cui facciamo parte.
Jeanne
È scesa la notte, siamo
ombre e silenzio.
Dedò, tra noi due è la corda
di un acrobata.
Dedò
Il tuo sorriso illumina
la stanza.
Jeanne
Dicevi:
poter fare l’equilibrista
sui tetti di Parigi
al chiaro di luna!
Ricordi?
Dedò
Il vuoto sotto la corda
è fatto del buon vento
leggero del sogno.
Manrico Murzi, poeta giramondo, nasce a Marciana Marina-isola d’Elba nel 1930. Nell’Ateneo romano è alla scuola di Ungaretti. Lascia presto insegnamento e accademia, si fa viaggiatore per mari e deserti: in particolare Mediterraneo, Medio e Estremo Oriente…
Giornalista, collabora a vari giornali e riviste. Scrive saggi, racconti e teatro: di recente Le sette voci di Elena e il libretto Jeanne et Dedò per un’opera lirica, musica di Delilah Gutman.
Rebellato di Padova pubblica la sua poesia: Il cielo è caduto, 1964; Forme nell’aria, 1972; il suo romanzo poetico Si va a simboli, 1979. Ancora poesia: Di Porto in Porto, Biblioteca Cominiana, 1996; Il Cantanimali, 1995-2000; Avorio liquido, 2004; A giro di bettola, 2006; Di mare un cammino, 2002-terza edizione ampliata 2017; di prossima pubblicazione Le mosche d’Omero. È del 2014 Lettere sul Vangelo secondo Tommaso, dialogo filosofico-religioso con Paolo Bianchi.
Tre libri di storia e d’arte: Italia Rotonda, 2007; Intarsio per un’Esposizione, 2014; Tavola Napoleonica, 2017. Ha tradotto da varie lingue: ricordiamo solo I doni di Alcippe di Marguerite Yourcenar, Bompiani 1987; Il Rione dei Ragazzi, libro proibito di Nagib Mahfuz che gli ha procurato la pena di morte da parte degli ulema di Al-Azhar al Cairo, Marietti 1992, Pironti 2001; Per la Ecig: El Cid di M. Baile, 1993; La guerra dei Trent’anni di Pagès, 1993; La leggenda dei Liberi Muratori, di Lobkowitz, 1994; Giacomo, fratello di Gesù di Bernheim, 1996.